TRIBUNALE DI NAPOLI Ufficio del Giudice per le indagini preliminari Ufficio XXIV Il Giudice dott. Antonio Cairo letti gli atti del procedimento in epigrafe indicato, a carico di M.U. nato a _ il _ incidenti in executivis iscritti: su richiesta di: interessato proc. 270/2013; su richiesta di: Procura della Repubblica sede n. 855/12 R.I.E. istanze del: come in atti. oggetto: Procura della Repubblica sede (n. 855/12 R.I.E.) determinazione della durata dell'isolamento diurno che accede all'ergastolo; oggetto: istanza proposta da interessato (proc. 270/2013) sostituzione della pena dell'ergastolo inflitto dalla Corte d'Assise d'appello, all'esito del giudizio, in data 11-3-2002, con rito abbreviato, titolo in cosa giudicata in data 29-11-2002, con quella della reclusione di anni trenta. A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 13-12-2013; Osserva In via preliminare sussiste la competenza in executivis di questo giudice in virtu' della sentenza emessa in data 31-3-2011 irrevocabile il 29-11-2011 n. 815/11, ultimo titolo in cosa giudicata, che radica la legittimazione a conoscere del tema proposto. Si profila una pregiudiziale di carattere costituzionale nell'incidente di esecuzione n. 270/2013 R.I.E. La questione condiziona in via pregiudiziale l'esame nel merito dell'istanza proposta nel proc. 855/12 R.I.E. e va risolta in via preliminare. A) Il caso oggetto d'esame in executivis nel procedimento n. 270/2013 R.I.E. Insta M.U., alla data odierna collaboratore di giustizia. Questa la sua prospettazione. I fatti storici che integrano delitto datano 6-4-1991. Si e' proceduto a suo carico per i seguenti delitti: - Capo B associazione camorristica pluriaggravata in Napoli dall'aprile 1991 con condotta perdurante; - Capo D1, concorso in omicidio. volontario aggravato di C.L. - concorso in tentato omicidio aggravato di C.G. - concorso in lesioni aggravante di F.F. fatti avvinti dal vincolo della continuazione; - Capo E1 concorso in tentato omicidio aggravato di F.I. - Capo F1 detenzione e porto illegale di armi in Napoli 6-4-1991. All'udienza preliminare del 14-5-1993 ha formulato richiesta di definizione con rito abbreviato. La richiesta e' stata dichiarata inammissibile per mancanza di consenso del P.M. Il 17-10-1999 la Corte d'assise lo ha condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno, oltre pene accessorie. All'udienza del giorno 11-10-2001 innanzi alla Corte d'Assise d'Appello l'istante ha formulato richiesta di definizione del processo con rito abbreviato. La richiesta e' stata accolta. Gli era stata, tuttavia, inflitta la pena dell'ergastolo. Non aveva avuto la possibilita' di formulare la richiesta di definizione con rito abbreviato prima perche', definito il processo in primo grado, non era ancora iniziato quello di appello. Assume l'istante che la formulazione dell'art. 442 co. 2 c.p.p. modificato dal d.l. 24-11-2000 n. 341 conv. il L. 19-1-2001 n. 4 alla pena dell'ergastolo - da intendersi senza isolamento diurno - e' sostituita quella della reclusione di anni trenta e' entrata in vigore nel periodo compreso tra il primo e il secondo grado. Lamenta, dunque, il M. di aver subito una sanzione illegittima potendo beneficiare del trattamento di favore previsto dall'art. 442 co. 2 c.p.p., in virtu' di un quadro normativo che la stessa corte costituzionale con sentenza 210/2013 ha dichiarato illegittimo relativamente all'art. 7 co. 1 del d.l. cit. Le verifiche camerali hanno richiesto alcune acquisizioni. Tra queste, in particolare, quella del verbale di udienza del giorno 11 ottobre 2001. Si riscontra che effettivamente il M.U. ha richiesto in quella data il rito abbreviato e che la Corte d'assise d'appello ha ammesso il rito stesso. Si legge nell'ordinanza quanto segue: la normativa di riferimento va ravvisata nell'art. 4-ter della legge 5-6-2000 n. 144 di conversione del d.l. 7-4-2000 n. 82 entrata in vigore il 22-6-2000 tale normativa opera una distinzione tra reati sanzionati con pena detentiva temporanea (1 comma) e reati puniti con la pena dell'ergastolo (2 comma), prescrivendo per i primi l'applicabilita' degli artt. 438 e ss c.p.p. come modificati o sostituiti dalla l. 479/1999 ai processi nei quali non sia ancora iniziata l'istruzione dibattimentale alla data di entrata in vigore della citata legge 5-6-2000 n. 144 per i reati di cui al secondo comma della citata legge, viceversa, (si) rappresenta la possibilita' nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della l. 144/2000 di chiedere che il processo, ai fini di cui all'art. 442 comma 2 c.p.p. sia immediatamente definito anche nel giudizio di appello qualora sia stata disposta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, prima della conclusione dell'istruzione stessa. In ordine a tale condizione normativa ritiene questa Corte che la disposizione transitoria vada interpretata nel senso che si debba prescindere dalle eventuali richieste di rinnovazione della stessa istruzione in ordine alle quali non sia, come nel caso di specie, intervenuta alcuna disposizione. In altri termini la disposizione transitoria che occupa non presume, in via necessitata, che sia stata disposta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale che l'istanza di applicazione di rito abbreviato sia intervenuta prima dell'esperimento dell'istruzione dibattimentale stessa. Diversamente argomentando si perverrebbe alla conclusione che l'istanza di rito abbreviato sarebbe preclusa per i procedimenti che non vedono ne' richiesta di rinnovazione della istruttoria .. ne' disposizioni in tal senso. Pertanto le relative istanze vanno accolte per ... M.U. ..... (estratto da: ordinanza manoscritta allegata al verbale di udienza e letta in data 11-10-2001). La Corte d'Assise d'appello ha, effettivamente, inflitto al M. all'esito del giudizio, in data 11-3-2002, applicando il rito abbreviato, la pena dell'ergastolo. Il titolo e' in cosa giudicata dal 29-11-2002. M.U. chiede in sede esecutiva che sia sostituita la pena dell'ergastolo con quella di anni trenta di reclusione. In difetto, assume, si realizzerebbe una violazione degli artt. 3, 117 Cost e la violazione dell'art. 7 della CEDU. B) - Cronologia. Questioni logico-giuridiche e temi rilevanti. 1. Inquadramento. La Corte di cassazione, S.U. penali, in data 10 settembre 2012, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale - in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - degli articoli 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni operano retroattivamente e, piu' specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479, sono stati giudicati successivamente, quando cioe', a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicabilita' del piu' sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto da tale decreto. La questione era legata alla sentenza della Corte EDU. Si era, invero, rilevata la violazione da parte dello Stato italiano dell'art. 7, paragrafo 1, della CEDU, provocata dall'applicazione dell'art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000. Ne era conseguita l'affermazione del dovere da parte dello Stato italiano si intervenire per assicurare che la pena dell'ergastolo, inflitta al ricorrente, fosse sostituita con una pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta. Secondo le sezioni unite, la sentenza della Corte EDU aveva rilevato nel nostro ordinamento un problema strutturale. La decisione conteneva una «regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, era astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata». Le sezioni unite hanno osservato come all'applicazione della regola contenuta nella sentenza cd. Scoppola si opponesse l'art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che, per i motivi indicati nella stessa sentenza della Corte EDU, appariva al Supremo collegio costituzionalmente illegittimo, in base all'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (il quale dispone che quando in applicazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima e' stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali), la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 7 consentirebbe l'applicazione dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. nel testo anteriore alla modificazione operata con il decreto-legge n. 341 del 2000 e, dunque, la richiesta sostituzione della pena. L'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 avrebbe operato con un duplice effetto, per superare sia il limite del giudicato sia quello del quarto comma dell'art. 2 del codice penale, il quale esclude l'applicabilita' di disposizioni «piu' favorevoli al reo» sopravvenute, qualora «sia stata pronunciata sentenza irrevocabile». 2. Il quadro normativa interno di riferimento nella successione temporale. L'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. prevedeva, originariamente ed al momento dell'introduzione del codice di rito, nel caso di giudizio abbreviato, la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella di trenta anni di reclusione. La norma era stata dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (Corte costituzionale: sentenza n. 176 del 1991). Per effetto della decisione indicata, tra il 1991 ed il 1999, l'accesso al rito abbreviato, sulla base degli artt. 438 e 442 cod. proc. pen., era precluso agli imputati per delitti puniti con l'ergastolo. L'art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, entrato in vigore 2 gennaio 2000, ha modificato l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., reintroducendo la possibilita' di procedere con il giudizio abbreviato per i reati punibili con l'ergastolo; ha previsto la sostituzione della pena con quella di trenta anni di reclusione. Il decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000, entrato in vigore lo stesso 24 novembre 2000, e convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, all'art. 7, ha modificato nuovamente l'art. 442 cod. proc. pen., stabilendo, in via di interpretazione autentica della precedente modifica, che «nell'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, l'espressione "pena dell'ergastolo" e' riferita all'ergastolo senza isolamento diurno» (art. 7, comma 1), e aggiungendo alla fine del comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen. la proposizione: «Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, e' sostituita quella dell'ergastolo» (art. 7, comma 2). In via transitoria, l'art. 8 del medesimo decreto-legge ha consentito a chi avesse formulato una richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999 di revocarla entro trenta giorni dall'entrata in vigore del decreto-legge con l'effetto che il processo sarebbe proseguito con il rito ordinario. Medio tempore, tuttavia, con il d.l. 7-4-2000 n. 82 conv. l. 5-6-2000 n. 144 si era operata cd. riapertura dei termini nei giudizi di appello. In particolare, era intervenuto in funzione della segnalata estensione l'art. 4-ter del d.l. cit. La norma contempla essenzialmente due ipotesi distinte. La prima concerne la fattispecie di' cui al comma 1 e recita: 1. Salvo quanto previsto dai commi seguenti, le disposizioni di cui agli articoli 438 e seguenti del codice di procedura penale come modificate o sostituite dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, si applicano ai processi nei quali, ancorche' sia scaduto il termine per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato, non sia ancora iniziata l'istruzione dibattimentale alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. La fattispecie contempla i casi in cui pur scaduto il termine per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato, non sia ancora iniziata l'istruzione dibattimentale alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. La seconda enuclea i casi del comma secondo e terzo. Questo il tenore: 2. Nei processi penali per reati puniti con la pena dell'ergastolo, in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e nei quali prima della data di entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479, era scaduto il termine per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato, l'imputato, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, puo' chiedere che il processo, ai fini di cui all'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, sia immediatamente definito, anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416, comma 2, del medesimo codice. 3. La richiesta di cui al comma 2 e' ammessa se e' presentata: a) nel giudizio di primo grado prima della conclusione dell'istruzione dibattimentale; b) nel giudizio di appello, qualora sia stata disposta la rinnovazione dell'istruzione ai sensi dell'art. 603 del codice di procedura penale, prima della conclusione della istruzione stessa; c) nel giudizio di rinvio, se ricorrono le condizioni di cui alle lettere a) e b). 4. La volonta' dell'imputato e' espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione e' autenticata nelle forme previste dall'art. 583, comma 3, del codice di procedura penale. 5. Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza, disponendo l'acquisizione del fascicolo di cui all'art. 416, comma 2, del codice di procedura penale. 6. Ai fini della deliberazione, il giudice utilizza, oltre agli atti contenuti nel fascicolo di cui al comma 5, le prove assunte in precedenza. 7. Per quanto non previsto nel presente articolo, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 441, escluso il comma 3, e 442 del codice di procedura penale, nonche' l'art. 443 del medesimo codice se la sentenza e' pronunciata nel giudizio di primo grado. Il decreto e' entrato in vigore (Art. 5) il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. 3. L'esame incidentale del quadro normativo interno da parte della sentenza della Grande Camera della Corte EDU 17.9.2009 Scoppola c/Italia. Con la sentenza del 17 settembre 2009, nel giudizio Scoppola contro Italia, si e' anticipato, la Grande Camera della Corte EDU ha scrutinato il quadro normativo interno e la vicenda relativa alla successione tra la legge n. 479 del 1999 ed il decreto-legge n. 341 del 2000, ravvisando una violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU. In particolare, la Corte EDU ha ritenuto che l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. ancorche' contenuto in una legge processuale, e' norma di diritto penale sostanziale, in quanto, «se e' vero che gli articoli 438 e 441-443 del c.p.p. descrivono il campo di applicazione e le fasi processuali del giudizio abbreviato, rimane comunque il fatto che il paragrafo 2 dell'art. 442 e' interamente dedicato alla severita' della pena da infliggere quando il processo si e' svolto secondo questa procedura semplificata». La norma, pertanto, rientra nel campo di applicazione dell'art. 7, paragrafo 1, della Convenzione, che, secondo una innovativa interpretazione della Corte di Strasburgo, comprende anche iI diritto dell'imputato di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza: nel caso di specie la sanzione di trenta anni di reclusione, pure nel caso di reati puniti con l'ergastolo con isolamento diurno, poi sostituita retroattivamente con quella del semplice ergastolo. 4. Il tema costituzionalmente scrutinato nella sentenza 210/2013 della Corte costituzionale. Il tema di legittimita' costituzionale, e' stato circoscritto all'art. 7 comma 1 del decreto-legge n. 341 del 2000. In virtu' della pretesa natura interpretativa la norma ha determinato la sua applicazione retroattiva. L'art. 7, comma 2, dello stesso decreto-legge, di modifica dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., si era limitato a dettare la nuova disciplina del rito abbreviato per i reati puniti con l'ergastolo, da applicarsi "a regime" e, dunque, nelle fattispecie successive alla sua entrata in vigore, che non riguardavano il caso oggetto del giudizio di costituzionalita' e prospettato alla Corte. 4.1 Le questioni "accessorie" in nesso di connessione logico-giuridica affrontate nella decisione. La prima concerne il se alla sentenza della Corte EDU, emessa nel caso Scoppola, dovesse darsi applicazione anche nei casi, che presentavano le medesime caratteristiche, senza che occorresse per gli stessi una specifica pronuncia della Corte EDU. Si e' richiamata la norma fondamentale in tema di esecuzione delle sentenze della Corte EDU. Si tratta, appunto, dell'art. 46, paragrafo 1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte». All'art. 46 si affianca l'art. 41 della CEDU, a norma del quale, «se la Corte dichiara che vi e' stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa» (sentenza n. 113 del 2011). In generale era inizialmente invalso l'argomento che valesse la regola della natura "essenzialmente dichiarativa" delle sentenze extradomestiche e quella della liberta' degli Stati nella scelta dei mezzi da utilizzare per conformarsi ad esse. Dalla sentenza della Corte EDU del 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia, l'ecc.ma Corte costituzionale ha sottolineato che si e' affermato principio secondo cui «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione previste dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» (Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia.). Lo Stato convenuto e', pertanto, tenuto anche a rimuovere gli impedimenti che, nella legislazione nazionale, si frappongono al conseguimento dell'obiettivo. Obblighi particolari di conformazione, alle pronunce della Corte EDU sono posti dalle cosiddette sentenze pilota. La categoria enuclea fattispecie in cui si evidenza un problema di carattere strutturale nell'ordinamento dello Stato convenuto. La Corte, cioe', non si limita ad individuare il problema che il caso presenta, ma si spinge ad indicare le misure piu' idonee per risolverlo. Secondo le sezioni unite della Corte di cassazione, la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, presentava i connotati sostanziali di una "sentenza pilota". Essa evidenziava l'esistenza, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformita' rispetto alla CEDU dell'art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna. Sarebbe spettato al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l'ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo avevano generato. In caso di omissione del legislatore sarebbe sorto il problema relativo alla eliminazione degli effetti gia' definitivamente prodotti in fattispecie uguali, che, tuttavia, non erano state denunciate innanzi alla Corte EDU ed erano divenute inoppugnabili. Scrive sul punto la Corte costituzionale: Esiste infatti una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facolta', con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non e' piu' suscettibile del rimedio convenzionale. Da cio' discende che il valore del giudicato non e' estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all'espansione della legge penale piu' favorevole. In linea di principio, l'obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l'ordinamento interno si e' formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell'ambito dell'ordinamento nazionale. Nel sistema la regola "d'ordine" dell'intangibilita' del giudicato, puo' flettere in casi eccezionali e solo quando si debbano ritenere prevalenti opposti valori, di dignita' costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Cio' accade al cospetto della liberta' personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: «per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di piu', l'abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236 del 2011). La Corte costituzionale conclude con l'affermazione che: Nell'ambito dell'odierno incidente di legittimita' costituzionale, tale rilievo e' sufficiente per concludere che, con riferimento al procedimento di adeguamento dell'ordinamento interno alla CEDU, originato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come invece accade di regola, limiti gli effetti dell'obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice. Nella prospettiva adottata dalle sezioni unite rimettenti, non vi sono percio' ostacoli che si frappongano alla estensione degli effetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella relativa a Scoppola, sulle quali si sia gia' formato il giudicato. - La seconda e' relativa al procedimento da seguire per conformarsi. L'interrogativo e' se il giudice dell'esecuzione abbia "competenza" al riguardo. Qui si addiviene alla conclusione che occorre incidere solo sul titolo esecutivo, in modo da sostituire la pena inflitta con quella conforme alla CEDU e determinata nella misura dalla legge. E', pertanto, sufficiente un intervento del giudice dell'esecuzione. - La terza questione e' legata all'interrogativo se l'obbligo di conformazione alla sentenza della Corte EDU, ostacolato dall'illegittimita' costituzionale di una norma nazionale, imponga o meno l'incidente di costituzionalita'. La conclusione cui si addiviene e' che in mancanza di una pronuncia specifica della Corte Europea rispetto al singolo ricorrente occorre sollevare una questione di legittimita' costituzionale della norma convenzionalmente illegittima. 4.2 Il merito. La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della CEDU. La norma impugnata, ha osservato la Corte, si colloca al termine di una successione di tre distinte discipline. La relativa successione e' stata gia' indicata. La sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, ha in sintesi affermato che l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severita' della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato» e che l'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non e' in realta' una norma interpretativa, perche' «l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava alcuna ambiguita' particolare; esso indicava chiaramente che la pena dell'ergastolo era sostituita da quella della reclusione di anni trenta, e non faceva distinzioni tra la condanna all'ergastolo con o senza isolamento diurno». Inoltre, aggiunge la sentenza Scoppola, «il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali ai quali l'art. 442 sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo». Si tratta di valutazioni ineccepibili anche in base all'ordinamento interno. La Corte costituzionale ha, dunque, aderito all'impostazione osservando che l'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 costituisce solo formalmente una norma interpretativa. Quella qualificazione non risponderebbe, di converso, alla realta'. A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza della Corte costituzionale e' costante nel ritenere che «le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) - integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 236, n. 113, n. 80 - che conferma la validita' di tale ricostruzione dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 - e n. 1 del 2011; n. 196 del 2010; n. 311 del 2009), e deve percio' concludersi che, costituendo l'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, rispetto all'art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la sua violazione, riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, comporta l'illegittimita' costituzionale della norma impugnata. Alla luce delle premesse indicate la Corte costituzionale ha; a) dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4; b) dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione; c) dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n, 4, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Il caso oggetto d'esame in executivis. Due sono essenzialmente le questioni da affrontare. La prima e' se il caso sottoposto, nell'odierno incidente di esecuzione, sia "formalmente identico" a quelli gia' esaminati nella giurisprudenza passata in rassegna ovvero se presenti i profili di analogia strutturale che permettono di procedere alla applicazione in via diretta ed immediata dei principi che sono stati gia' enucleati dalla Corte EDU, dalle SS.UU della Suprema Corte di cassazione e, da ultimo, dalla ecc.ma Corte costituzionale con la parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 7 co. 1 d.l. cit.. La seconda e' se, escluso che si versi nell'ipotesi indicata di identita' «formale e strutturale" e, dunque, escluso che in sede esecutiva, secondo il quadro di riferimento enucleato, il M. abbia diritto ad ottenere una modifica del giudicato a suo carico, si prospetti, in via di ipotesi, una lesione della sua sfera giuridica ed una possibile frizione del quadro normativo di riferimento, cosi' delineato e da applicare, con i principi costituzionali e convenzionali, secondo il doppio modello di cd. circolarita' concentrica. L'esame delle questioni va operato alla luce di quello che parrebbe il tracciato consolidato in giurisprudenza, che si omologa al cd. diritto vivente e che puo' essere cosi' sintetizzato: A seguito della sentenza della Grande Chambre della Corte EDU n. 10249 del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola c. Italia, condannato alla pena dell'ergastolo con sentenza passata in giudicato puo' ottenere in sede esecutiva la riduzione della pena ex art. 442 cod. proc. pen. a condizione che abbia chiesto e sia stato ammesso al rito abbreviato tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000 (e, cioe', nella vigenza dell'art. 30, comma primo, lett. b., L. 479 del 1999) e la decisione sia stata pronunciata dopo il 24 novembre 2000, con applicazione del D.L. 341del 2000 che ripristinava l'ergastolo senza isolamento diurno (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23931 del 17/05/2013 Cc. (dep. 03/06/2013) Rv. 256257; conformi parrebbero: N. 4075 del 2012 Rv. 254212, N. 5134 del 2012 Rv. 251857, N. 25227 del 2012 Rv. 253093, N. 34233 del 2012 Rv. 252932, N. 48329 del 2012 Rv. 25). Il primo tema. L'assunta identita' formale e sostanziale dei casi a confronto. Non si versa, tenuto conto dell'orientamento giurisprudenziale tracciato, al cospetto di ipotesi siffatta, a giudizio del decidente. Il caso esaminato dalla Corte di cassazione, che ha inteso rimettere la questione di costituzionalita', presenta un profilo di differenziazione netto per l'aspetto processuale. Quel dato diventa di non poco momento nella soluzione della vicenda e rende non estensibile ipso facto il principio di diritto su cui si e' gia' intrattenuta la Suprema Corte di cassazione e l'ecc.ma Corte costituzionale. Quel caso puo' essere cosi' riassunto. Il soggetto era stato condannato con sentenza della Corte di assise, in data 18 luglio 1998, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno. Il condannato aveva proposto appello. Nel corso del giudizio di secondo grado era entrata in vigore (2 gennaio 2000) la legge 16 dicembre 1999, n. 479. L'art. 30, comma 1, lettera b), aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen. il seguente periodo: «Alla pena dell'ergastolo e' sostituita quella della reclusione di anni trenta», reintroducendo cosi' la possibilita' per la persona imputata di reati punibili con la pena perpetua di accedere al rito abbreviato. L'imputato il 12 giugno 2000, nel corso del giudizio di appello, proprio avvalendosi della riapertura dei termini, disposta dall'art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, aveva chiesto di procedere con il rito abbreviato. Dalla richiesta sarebbe derivata, in virtu' dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (nel testo vigente in quel momento), la sostituzione della pena dell'ergastolo, con o senza isolamento, con quella di anni trenta di reclusione. Era, tuttavia, prima della conclusione del giudizio d'appello, entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, l'art. 7, nell'intento dichiarato di dare una interpretazione autentica al secondo periodo dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 479 del 1999. Aveva stabilito che l'espressione «pena dell'ergastolo» ivi contenuta dovesse intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno ed aveva inserito alla fine della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale «Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, e' sostituita quella dell'ergastolo». In applicazione del citato art. 7 la Corte di assise di appello, con sentenza del 10 luglio 2001 (divenuta irrevocabile il 14 novembre 2003), aveva inflitto al ricorrente la pena dell'ergastolo. Sulla scorta di quadro fattuale siffatto la Corte di cassazione ha condiviso la prospettazione secondo cui il rigetto del Tribunale, in funzione di giudice dell'esecuzione, non era conforme a Costituzione e Convenzione e le sezioni unite hanno sollevato la questione di legittimita', accolta nei termini enucleati dalla Corte costituzionale. La Corte costituzionale, in definitiva, conformando l'ordinamento interno al principio affermato dalla Corte EDU, (17 settembre 2009), ha condiviso i seguenti principi: che l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severita' della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato» e che l'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non e' in realta' una norma interpretativa. Dalla formulazione normativa operata ne derivava una applicazione retroattiva in termini sfavorevoli non conforme a Costituzione e Convenzione. E' seguita la dichiarazione di incostituzionalita'. Nel caso oggetto d'esame nel presente incidente esecutivo vive, tuttavia, un profilo differenziale non marginale. Opera sul piano del dipanarsi della vicenda processuale nel tempo. La vicenda, sul piano sostanziale, e' esattamente sovrapponibile a quella gia' descritta. Se ne differenzia, in relazione alla data in cui l'imputato ha richiesto l'accesso al rito abbreviato. Qui si apre il profilo che diversifica strutturalmente e giuridicamente le due fattispecie processuali. Il M. chiede l'accesso al rito abbreviato in pendenza del giudizio di appello e nel processo che lo riguarda dopo l'entrata in vigore dell'art. 7 d.l. cit. Il decreto-legge entra, invero, in vigore nel pomeriggio del 24 novembre 2000 e l'imputato formalizza la richiesta di abbreviato in data 11.10.2001. Stricto iure non si pone, dunque, per il M., un problema di applicazione retroattiva di un trattamento penale sfavorevole, tema che aveva interessato il caso Scoppola e quello che ha indotto la stessa Corte costituzionale a dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 7 co. 1 del d.l. cit (sentenza C. Costituzionale nr. 210/2013). Alla luce, dunque, del cd. diritto vivente teste' evocato si sarebbe fuori dall'applicazione esecutiva del trattamento di favore invocato dall'istante. Tuttavia, sono doverose alcune considerazioni. E' fuori discussione che il M. abbia richiesto la definizione del giudizio pendente a suo carico innanzi la Corte d'Assise d'Appello ed in applicazione dell'art. 4-ter del d.l. 7-4-2000 n. 82. In particolare anche in quella circostanza aveva trovato applicazione la norma entrata in vigore prima del decreto di cd. interpretazione autentica e che aveva avuto come termine di riferimento sostanziale una serie di imputati che erano nella seguente condizione: a) aver commesso un delitto qualificato, punito con l'ergastolo (era indifferente nella previsione normativa se accompagnato da isolamento o meno); b) trovarsi nella posizione processuale di cui all'art. 4-ter del d.l. 82/2000 e, cioe', 1) imputati in processo penale, per reati puniti con la pena dell'ergastolo, in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (l. 5-6-2000 n. 144) ed in cui, prima della data di entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479, era scaduto il termine per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato; 2) aver avanzato istanza (nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto 82/2000), di definizione ai sensi dell'art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, con impiego immediato anche degli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416, comma 2, del medesimo codice. Ancora nel giudizio d'appello era possibile la richiesta qualora fosse stata disposta la rinnovazione dell'istruzione ai sensi dell'art. 603 del codice di procedura penale, prima della conclusione della istruzione stessa; nel giudizio di rinvio nel concorso delle condizioni di cui alle lettere a) e b). A rigore, pertanto, ed in un procedimento di stretta interpretazione giuridica del quadro normativo di riferimento, attualmente in vigore, nonostante la declaratoria di illegittimita' costituzionale anche all'indomani della sentenza 210/2013 della Corte costituzionale, si imporrebbe di escludere la rivisitazione in executivis del giudicato in favore del M. Nei suoi confronti, invero, non si profila alcun problema di applicazione retroattiva di una norma sfavorevole. Egli, infatti, ha avanzato istanza di definizione con rito abbreviato allorquando era gia' in vigore la norma di lettura cd. autentica e nel regime di un quadro normativa che aveva gia' differenziato il trattamento penale per i delitti puniti con ergastolo semplice e con ergastolo aggravato dall'isolamento. Lo sbarramento temporale, si e' visto, data 24 novembre 2000. Dovrebbe derivare, in prospettiva siffatta, l'esclusione del M. dal ventaglio di ipotesi gia' scrutiniate favorevolmente ed il rigetto dell'istanza presentata in questa sede. Deve, tuttavia, osservarsi che il quadro cosi' ricostruito ed interpretato potrebbe presentare un profilo lesivo della sfera giuridica dell'istante ed una possibile frizione dell'assetto normativo da applicare nel caso di specie con i principi costituzionali e convenzionali, secondo il doppio modello di cd. circolarita' concentrica. Si introduce, dunque, l'esame del secondo tema cui sopra si e' fatto cenno. Non occorre ritornare sull'assetto normativo in un preciso arco storico-temporale. Si e' gia' avuto modo di dire che tra l'entrata in vigore della legge cd. Carotti (l. 479/1999) e l'approvazione del d.l. 24.11.2000, il trattamento penale sostanziale, cioe' incidente sul diritto sostantivo, era caratterizzato da una particolarita' e, cioe', che per reati commessi ovviamente prima o in costanza di disciplina novellata, e pendente il processo relativo, in primo e/o secondo grado, gli imputati avevano la possibilita' di accedere ad una pena diversa dall'ergastolo, fruendo del regime di favore introdotto dal rito abbreviato. Cio' anche per i giudizi in fase di appello, per effetto delle disposizione transitoria introdotta con il d.l. 82/2000. La ratio della riforma normativa va esattamente individuata. Tra le spinte che avevano indotto la novella vi era anche quella della deflazione processuale. Si intendeva assicurare, tra l'altro, anche nei giudizi pendenti una riduzione sensibile di pena a chi avesse rinunciato al contraddittorio pieno sulla formazione della prova, accettando il rito allo stato degli atti. Anche in cio' stava la ragione di ammettere i processi pendenti in appello al rito nella forma neointrodotta. La condizione era che non si fosse esaurita la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. In caso diverso, era evidente, non vi sarebbe stato alcun risparmio di energie processuali e non avrebbe avuto significato "razionale" il riconoscimento del beneficio che caratterizzava la pena del rito abbreviato, per definizione tradizionale "allo stato degli atti". Cio' spiega anche perche' era escluso l'accesso al rito nel giudizio di legittimita' e perche', al contrario, era possibile in fase di giudizio di rinvio, nel concorso delle condizioni sopra enucleate e fissate dall'art. 4-ter del. D.l. 82/2000. Dato siffatto traccia, dunque, un profilo sensibilmente diverso della presente questione rispetto a quella gia' decisa da: Corte costituzionale ord. 23-7-2013 n. 235, Quello indicato, pertanto, appare lo statuto logico-strutturale della disposizione transitoria di cui all'art. 4-ter del d.l. 82/2000. Essa, dunque, trattandosi di norma generale ed astratta aveva come referenti di destinazione tutti gli imputati che erano nella condizione relativa. Si trattava di norma processuale (art. 4-ter cit.), che, in definitiva, si abbinava ad altra disposizione (art. 30 co 1 lett. b) l. 479/1999). Quest'ultima norma era solo formalmente processuale e presentava, tuttavia, natura anche di diritto sostantivo incidendo, in definitiva, sul trattamento penale del fatto. Attraverso l'abbinamento normativo indicato (dell'art. 4-ter e dell'art. 30 l. 479/1999, con il rinvio al modello del rito abbreviato di cui all'art. 442 c.p.p.) si era inteso permettere agli imputati, pendente iudicio, di poter fruire del nuovo trattamento penale migliorativo. Qui la questione si intreccia con la necessita' di affrontare il tema centrale che afferisce la natura giuridica del potere normativamente riconosciuto dall'art. 4-ter d.l. 82/2000 all'imputato, gia' condannato in primo grado, di definire la sua posizione in abbreviato, anche nel pendente giudizio di appello. Cio' perche' la norma contiene un riferimento temporale chiaro e riconosce l'esercizio di quel potere e delle modalita' per formalizzare l'istanza di giudizio abbreviato, anche in appello, fruendo del trattamento sostanziale di favore previsto dall'art. 30 co. 1lett. b) della legge 479/1999. La disposizione assicurava cio' all'imputato prescrivendo che dovesse farlo nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. La particolarita' che qui contraddistingue il caso oggetto d'esame e' che nel processo specifico la prima udienza utile risulterebbe fissata dopo l'entrata in vigore del decreto di interpretazione autentica e, dunque, allorquando era "a regime" una nuova disciplina. Essa, tuttavia, finiva per incidere sensibilmente sul profilo di diritto sostanziale e andava a caratterizzare diversamente l'istanza di rito abbreviato. La novita' era che il delitto punito con ergastolo ed isolamento avrebbe ricevuto, dal pomeriggio del 24 novembre 2000, un trattamento processuale piu' severo, rispetto alla disciplina previgente ed introdotta dall'art. 30 co. 1 lett. b) l. 479/1999. Questo e' il punto centrale della questione. Non serve qui ricostruire il rapporto teorico-concettuale che esiste tra gli effetti di diritto sostantivo ed il meccanismo di struttura processuale che e' scritto nell'art. 442 c.p.p. Va detto, indubbiamente, che affinche' esso operi occorre la coesistenza di una serie di elementi. Il primo e' il fatto storico che integra delitto; il secondo e' che penda processo in cui trova applicazione l'art. 442 c.p.p., sede in cui va formalizzato l'esercizio del diritto processuale di definire la posizione relativa alla regiudicanda dedotta nel processo. E', dunque, vero che il processo e la volonta' dell'imputato di definirlo con rito alternativo rendono concretamente applicabile la fattispecie complessa del trattamento sanzionatorio favorevole "sostanziale" scritto nell'art. 442 c.p.p. Tuttavia, e' altrettanto vero che, pur essendo condizionato lo "statuto penale" finale del fatto-reato, al processo ed alla legge che regola i diritti potestativi della parte, legge in vigore nel momento in cui si celebra il giudizio, non sempre ,e' possibile ritenere che il criterio di lettura delle potesta' processuali sia unicamente e razionalmente quello del cd. tempus regit actum. Cio' specie allorquando l'esercizio dei diritti processuali potestativi - che modificano unilateralmente la fattispecie processuale ed incidono sulla condizione della parte secondo la legge in vigore al momento dell'esercizio stesso - e' in stretto collegamento con una normativa sostanziale di riferimento che incide sfavorevolmente sulla dosimetria della pena. Qui non si versa, dunque, al cospetto di figure che modificano il solo processo ed i diritti formali che in esso vivono. V'e', di converso, coesistenza di posizioni giuridiche soggettive che hanno distinta natura. Da un lato v'e' il diritto potestativo di definire il rito con un procedimento alternativo (l'abbreviato) e, dall'altro, v'e' la posizione giuridica soggettiva parallela di vedere definito il giudizio stesso, applicando la disciplina sostanziale di riferimento "favorevole" che risulta in vigore nella congiuntura temporale in cui nasce la specifica posizione processuale e si consolida nella sfera giuridica sostanziale della parte, a carico della quale gia' e' instaurato il rapporto processuale. E', dunque, chiaro come in questi casi sia la pendenza del giudizio a carico dell'imputato a segnare anche lo statuto "sostanziale" cui egli aspira. E cio' non perche' si generi una pura aspettativa di diritto, ma perche' la posizione giuridica dell'imputato (gia' condannato in primo grado nel caso di specie) e' quella del diritto soggettivo pieno. Il quadro appare chiaro proprio riflettendo sulla insolita vicenda modificativa-successoria che ha caratterizzato l'art. 442 c.p.p. e l'applicazione della norma parallela di cui all'art. 4-ter del d.l. 82/2000. Qui si comprende come si versi al cospetto di una fattispecie complessa, che cumula profili che afferiscono al diritto penale sostanziale ed all'esercizio di diritti potestativi processuali della parte. Cio' induce una prima conclusione. Le modifiche sui diritti processuali potestativi dell'imputato che incidano o abbiano nessi di collegamento con il trattamento penale sostanziale devono essere regolati dalle medesime norme e principi di favore che disciplinano il diritto sostanziale stesso. Nel caso del rito abbreviato su reati puniti con l'ergastolo si assiste, per vero, ad una vicenda successoria normativa che, per una fase temporale, ha tratti di anomalia strutturale. E' un quadro che la Corte costituzionale ha gia' in parte ricondotto a razionalita' di sistema con la declaratoria di illegittimita' indicata (sentenza 210/2013). Residua, tuttavia, a giudizio del decidente, l'ulteriore profilo di frizione costituzionale che si passa ad esporre e che si fonda su quanto gia' premesso. Invero, si e' anticipato che la categoria sostanziale soggettiva di riferimento all'indomani dell'entrata in vigore della norma di cui all'art. 4-ter d.l. 82/2000 era indistintamente, per cio' che interessa il caso de quo, quella degli imputati che fossero giudicabili in un giudizio gia' pendente in appello, fase processuale in cui si poteva beneficiare della pena di anni trenta di reclusione, in luogo dell'ergastolo. Occorreva fare istanza richiedendo il giudizio abbreviato nelle condizioni dell'art. 4-ter d.l. cit. Tuttavia, l'entrata in vigore del d.l. 341/2000 ha modificato le cose. Dalla successione di norme e' derivata per l'imputato, che oggi se ne duole, l'impossibilita' di richiedere il giudizio abbreviato nella forma di maggior favore che pure il d.l. indicato con l'art. 4-ter gli aveva riconosciuto, essendo gia' pendente in suo favore il processo d'appello a suo carico ed avendo egli gia' subito la condanna in primo grado. Cio' perche' la prima udienza utile, per una congiuntura puramente casuale, e' caduta in epoca successiva all'entrata in vigore del d.l. di ulteriore modifica e, dunque, dopo il 24 novembre 2000. Si assiste, cioe', processualmente ad una nuova definizione, in senso peggiorativo, delle posizioni giuridiche soggettive degli imputati condannati in primo grado, cui inizialmente era stato riconosciuto il diritto di accedere ad abbreviato nella forma favorevole degli anni trenta di reclusione, richiamando la disposizione dell'art. 30 co. 1 lett. b) della legge 479/1999, nella prima udienza utile. Lo, si fa, normativamente, modificando, in definitiva dal 24-11-2000, il trattamento sostanziale di riferimento ed operando una differenziazione, ai fini dell'esercizio del diritto potestativo processuale dell'imputato di definire il processo con abbreviato, sul piano sostanziale, tra i delitti puniti con ergastolo e quelli puniti con ergastolo ed isolamento. Tutto cio' ha un fondamento razionale per i fatti successivi al 24-11-2000 e per i processi che non risultino incardinati gia' a quella data. Per le posizioni degli imputati, a carico dei quali pendeva il giudizio d'appello, e cui gia' era stato riconosciuto il diritto di accedere al rito con il trattamento di favore introdotto (e derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 4-ter d.l. cit e 30 co. 1 lett. b) l. 479/1999), non appare "razionale" retrocedere e, dunque, legislativamente modificare nuovamente il trattamento "sostanziale" che sarebbe derivato in caso di esercizio delle facolta' processuali relative all'istanza di rito abbreviato. Cosi' operando si sono prodotte differenziazioni processuali e sostanziali non ragionevoli. Invero si e' finito per diversificare una serie di soggetti. Si tratta di coloro cui era stato riconosciuto il diritto potestativo processuale di accedere al rito abbreviato e di fruire della pena sostanzialmente applicabile a quel caso processuale, per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 4-ter cit. In questa categoria unitaria, composta da soggetti gia' condannati in primo grado per delitti puniti con ergastolo, anche aggravato, si sono finiti per differenziare proprio coloro che erano riusciti a chiedere il giudizio abbreviato prima dell'entrata in vigore del d.l. cd. di interpretazione autentica (24-11-2000) e coloro che, per una pura congiuntura del caso ed essenzialmente legata ad un fattore temporale, legato alla data di fissazione della prima udienza utile in grado d'appello, non avevano potuto esercitare in concreto quel diritto potestativo, gia' riconosciuto loro dall'art. 4-ter d.l. 82/2000 nella "consistenza sostanziale" che derivava dal rinvio che operava lo stesso art. 4-ter d.l. cit alla formulazione dell'art. 442 c.p.p. vigente all'indomani della modifica operata dall'art. 30 co. 1 lett. b della l. 479/1999. Costoro, infatti, non avevano avuto in concreto la possibilita' di esercitare un diritto che era entrato a far gia' parte del rispettivo patrimonio processuale. Quel diritto gli era attribuito, per norma di legge dopo l'entrata in vigore del d.l. 82/2000 piu' volte indicato. Era un diritto non solo formale e processuale, ma una prerogativa che caratterizzava gia' lo statuto sostanziale del condannato in primo grado all'ergastolo con isolamento, nella cui sfera giuridica l'ordinamento aveva gia' istituito il diritto di chiedere l'abbreviato e di vedersi riconosciuto, nel concorso delle relative condizioni, lo statuto sostanziale favorevole introdotto a far data dal 4 aprile 2000. Qui occorre attenzione. Non basta operare attraverso un ragionamento che induca a ritenere che non avendo chiesto il giudizio entro il 24 novembre 2000 non si concretizza a favore della parte processuale il diritto al trattamento sostanziale di favore, introdotto dalla normativa piu' favorevole, per cosi' dire, "vigente a tempo". Si rischia la semplificazione. Il diritto di ottenere la definizione del processo, con riduzione di pena si attualizza, indubbiamente, con l'esercizio della potesta' processuale. Si tratta di potesta' che governa i diritti processuali dell'imputato gia' condannato e che, pendente il giudizio, non puo' essere sottratta o modificata senza una valida ragione giustificativa. Non si puo' prima attribuire: una determinata posizione giuridica (che gia' amplia la sfera giuridica del condannato, riconoscendogli il diritto ad un certo trattamento) e, successivamente, senza una ragione valida, annullare quel trattamento "sostanziale" modificandone la portata e privando, dunque, attraverso quella modifica la parte stessa di un beneficio accordato. Il "diritto" al trattamento penale non si crea, dunque, per effetto dell'esercizio del potere processuale di accedere all'abbreviato nel caso di specie. Nasce, piuttosto, per effetto dell'entrata in vigore della norma ed entra, nella precisa congiuntura temporale del giudizio, nel patrimonio processuale del condannato. Quel diritto non e' piu' modificabile, in senso peggiorativo, almeno a favore di coloro cui sia stato riconosciuto e nella parte in cui si collega ad un trattamento sostanziale di favore. Vale osservare come qui non si sia al cospetto d'un decreto legge non convertito contenente norma penale di favore. Quel caso era stato anche esaminato dalla Corte costituzionale e risolto in senso negativo (Corte cost. sent. 51/85), facendo, appunto, leva sulla considerazione che il decreto non convertito non aveva ricevuto l'avallo necessario del Parlamento ex art. 77 Cost. Non sarebbe stato, dunque, possibile ipotizzarne un'applicazione quale fonte "intermedia" favorevole, succedutasi nel tempo. Nel caso di specie la questione e' diversa. Il diritto deriva da un decreto (82/2000) regolarmente convertito in legge. Il diritto "processuale-sostanziale" nella forma assegnata dall'evocato art. 4-ter e' entrato a far parte del patrimonio del condannato in primo grado. Da quel momento sarebbe spettata a costui la sola facolta' relativa all'esercizio del potere nella forma attribuitagli. Non si ritiene che si possa retrocedere modificando il trattamento di favore senza una valida ragione che giustifichi quel mutamento. L'ecc.ma Corte costituzionale ha gia' avuto modo di dichiarare illegittimo l'art. 7 co. 1 del d.l. cit nella parte in cui applica retroattivamente la sua disciplina. Si e' visto. Ai soggetti condannati e' stato, pertanto, riconosciuto il diritto a far rivedere il giudicato sfavorevole. In questa sede, dunque, e proprio all'indomani della decisione della Corte costituzionale, si apre un possibile ed ulteriore profilo che la ecc.ma Corte stesa deve scrutinare. Si profila, invero, una irrazionale differenziazione tra imputati condannati. La diversificazione e' tra le due categorie di imputati-condannati in primo grado cui si e' fatto cenno. La prima accomuna coloro che hanno avuto la concreta possibilita' di manifestare, in virtu' dell'art. 4-ter d.l. 82/2000 la volonta' di definire il processo con il rito abbreviato prima della modifica normativa introdotta dall'art. 7 co 1 del d.l. 341/2000 e che possono, oggi, per effetto della recente declaratoria di illegittimita' costituzionale beneficiare della sostituzione della pena dell'ergastolo con quella di anni trenta di reclusione. La seconda unifica coloro che, al contrario, nella stessa situazione astratta processuale e, dunque, titolari del medesimo diritto potestativo processuale alla definizione del rito abbreviato, nella forma e con la pena introdotta dalla legge 479/1999, perche' condannati in primo grado ed in attesa della prima udienza di appello (ex art. 4-ter d.l. 82/2000), non hanno potuto esercitare il diritto stesso, per una ragione di pura accidentalita' processuale, legata alla fissazione della prima udienza utile del giudizio d'appello. Costoro sono stati costretti, per un verso, all'epoca, ad accedere ad un rito alternativo con pena piu' severa (quella introdotta dal d.l. 341 /2000) e, per altro, alla data odierna, non possono richiedere la rettifica della sanzione alla luce della lettura giurisprudenziale, prodottasi anche all'esito delle osservazioni della Corte Europea dei diritti dell'uomo e della Corte costituzionale stessa. Non v'e' dubbio che le due categorie sostanziali astratte di imputati-condannati siano in una situazione strutturalmente non differente. Si trattava di imputati, a carico dei quali pendeva il giudizio relativo e che potevano beneficiare dell'istituto del rito abbreviato nella forma di favore introdotta. Il diritto esisteva in maniera identica. E' il suo esercizio concreto che risulta essere stato precluso in maniera irrazionale, per effetto del d.l. 341/2000. La differenziazione sta, invero, nella congiuntura storica che, mentre in favore di alcuni era stato gia' calendarizzato giudizio d'appello, prima del d.l. 341, per altri la data d'udienza e' stata fissata solo dopo il 24 novembre 2000 e l'entrata in vigore del d.l. citato. Non vale, a giudizio del decidente, razionalmente, differenziare due categorie soggettive di imputati, che vivano la medesima situazione processuale, impiegando l'argomento che in ogni caso una parte di costoro (l'ultima) sia stata consapevole di accedere ad un rito che garantiva una riduzione di pena diversa da quella inizialmente prevista. Non aiuta argomento siffatto. Cio' perche' la questione, si e' detto, e' che attraverso la norma successiva (art. 7 d.l. 341/2000) si e' modificato, in definitiva, un diritto potestativo processuale dell'imputato di cui egli era gia' titolare, in un certo arco temporale (tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 2011) e si e' preclusa la possibilita' di esercitarlo con gli effetti sostanziali di favore che da esso sarebbero dovuti derivare. Quel diritto alla definizione della relativa posizione processuale con il rito abbreviato, non era una pura potesta' processuale. Piuttosto era un diritto in inscindibile collegamento, nell'arco temporale, in cui era pendente il processo stesso, con trattamento "sostanziale" di maggior favore scritto nell'art. 442 c.p.p. per il fatto punito con la pena dell'ergastolo aggravato. Ed era una posizione giuridica entrata nella sfera del condannato, non suscettibile di nuova modifica peggiorativa, senza una ragione sostanziale valida nella pendenza del giudizio a suo carico. Avrebbe avuto ragionevolmente valore ed efficacia il trattamento modificativo in peius per i nuovi giudizi; non per quelli in corso ai cui imputati-condannati era stato gia' riconosciuto in astratto, con l'entrata in vigore della norma. Cio' perche' il diritto si era consolidato in quei termini nella sfera processuale di ciascuno. Era il solo «esercizio» ad essere differito non oltre la prima udienza utile. Non e', dunque, l'esercizio della facolta' che fa nascere il diritto. La posizione giuridica soggettiva nel processo a carico del singolo nasce dalla norma e si consolida in quella forma e di per se' a favore del condannato (ex art. 4-ter d.l. cit). E' un diritto potestativo unilaterale che diventa reale ed attuale con il suo esercizio nel processo stesso. Ebbene e' possibile differenziare e modificare anche diritti potestativi processuali, inibendone l'esercizio o modificandone le condizioni di attuazione. Tuttavia, quando cio' comporti effetti deteriori per l'imputato, anche sul piano del diritto sostantivo, occorre che la scelta normativa di differenziare il trattamento legislativo stesso, nella pendenza del processo relativo, risponda a criteri logico-razionali. Analogo principio Corte costituzionale ha avuto modo di affermare nella sentenza 23-11-2006 n. 393. La scelta di modificare il trattamento penale, per i delitti puniti con ergastolo e isolamento, che siano definiti in abbreviato e' di stretta discrezionalita' legislativa e fa parte, pertanto, della politica criminale dello Stato. Non si puo', pero', la' dove si sia inteso intervenire su situazioni processuali in itinere, riconoscendo agli imputati pendente iudicio una potesta' processuale che abbia implicazioni sostanziali, e che riconosca un trattamento favorevole in punto di pena, elidere detta facolta' e differenziare gli imputati stessi, senza una valida ragione giustificativa e che risponda a criteri di razionalita' sostanziale e di ragionevolezza intrinseca della differenziazione concretizzata. Ragionare diversamente rischierebbe di intaccare l'art. 3 della Carta Costituzionale. Qui, e nel caso del M., oggetto del giudizio esecutivo, il problema si pone. Nella circostanza il mancato esercizio del diritto riconosciuto nei termini di cui all'art. 4-ter d.l. cit si collega ad una modifica processuale e sostanziale della disciplina giuridica, che in concreto ha precluso l'esercizio di un diritto prima riconosciuto. Infatti, entrato in vigore il d.l. 341/2000 e' stata modificata la disciplina di riferimento. La frizione costituzionale nasce, dunque, in questo specifico segmento. Quando i diritti processuali degli imputati sono in nesso di inscindibile collegamento con aspetti sostanziali del trattamento sanzionatorio la disciplina che intenda diversificare il trattamento stesso nel tempo deve essere sorretta da attente ponderazioni e valide ragioni, che stiano a fondamento della differente opzione normativa. Cio' perche' si incide su valori superprimari e si toccano i diritti di liberta'. Qui, al contrario, il risultato della complessa vicenda ricostruita e la differenziazione tra posizioni non sembra al decidente dipendere da scelte normative razionali, ma, si e' gia' detto, dalla pura casualita' della data di fissazione della prima udienza in appello che, per una parte dei casi (indicati dalla norma transitoria di cui all'art. 4-ter d.l. 82/2000) finisce per seguire la disciplina piu' favorevole e, per altra parte, quella introdotta dal d.l. 341/2000. Ora e' evidente come l'intervenuta declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 7 co. 1 del d.l. 341/2000 ed il conseguente obbligo di conformare i giudicati a quella pronuncia renda viepiu' antinomico il sistema. Si finisce per differenziare gli imputati sulla base della pura circostanza del destino (la data di fissazione della prima udienza utile per richiedere abbreviato nel giudizio d'appello). La sorte del trattamento penale varia a seconda che la prima udienza utile sia stata anteriore o successiva al 24-11-2000. Il quadro sembra in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza nella parte in cui non prevede che gli aventi diritto alla definizione con rito abbreviato, in attuazione di quella disposizione, possano fruire della disciplina nella forma e nel trattamento sanzionatorio all'epoca introdotto, comunque, anche in loro favore per effetto dell'art. 4-ter d.l. 82/2000, nel vigore dell'art. 442 c.p.p. come modificato dall'art. 30 co. 1 l. b) della legge 479/1999. La formulazione letterale della disposizione transitoria, invero, rinviava appunto all'art. 442 co 2 c.p.p. Ebbene nel caso di specie il giudicato in astratto non sarebbe ostativo all'esame della domanda in executivis. Si e' spiegato perche' la regola "d'ordine" del sistema dell'intangibilita' del giudicato stesso, puo' recedere al cospetto di opposti valori, di pari dignita' costituzionale, come quello della liberta' personale e della regola di ragionevolezza. Ebbene se il principio da tenere presente e' che: laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: «per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di piu', l'abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236 del 2011) si comprende come la valutazione si debba spostare sulla ricerca delle ragioni concrete che inducono a differenziare il trattamento penale su fattispecie identiche. Nel caso di specie, non si e' considerato che attraverso l'avvicendamento normativo si e' finito per incidere, per un verso, retroattivamente ed in malam partem su chi aveva gia' avuto la possibilita' di chiedere il rito abbreviato e, per altro verso, su chi, nella stessa condizione aveva maturato un diritto identico, ad una certa pena, in virtu' della potesta' processuale riconosciutagli dall'ordinamento e, di converso, gli e' stato precluso, modificando il trattamento sostanziale, l'esercizio relativo del diritto nella forma indicata, in sede processuale. Del resto, alcun dubbio che la Corte EDU, con la sentenza Scoppola del 17 settembre 2009, abbia ritenuto, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, che «l'art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattivita' delle leggi penali piu' severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattivita' della legge penale meno severa», che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli all'imputato». Si tratta, nell'ambito dell'art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a quello contenuto nel quarto comma dell'art. 2 cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo e' stato elevato al rango di principio della Convenzione. Ebbene leggendo la complessa successione di leggi nel tempo e' fuori discussione che l'art. 30 della legge n. 479 del 1999 si traduca in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa e che l'art. 7 della Convenzione (...) imponeva dunque di farne beneficiare tutti coloro ai quali nella pendenza del processo in grado d'appello il legislatore aveva gia' inteso riconoscere quella potesta' introducendo, appunto, l'art. 4-ter con d.l. 80/2000 e garantendo che alla prima udienza utile in appello avrebbero avuto facolta' di richiedere la definizione con il rito alternativo. L'avvenuta modifica con il d.l. 341/2000 (art. 7 co. 1), oltre a non poter operare retroattivamente, nel senso censurato dalla Corte costituzionale, impone di ritenere anche, che la norma indicata non possa operare per i processi all'epoca gia' pendenti in appello (o in giudizio di rinvio) alle cui parti processuali - imputate dei delitti qualificati (puntiti con ergastolo e isolamento) - il sistema aveva gia' riconosciuto il diritto al trattamento introdotto dall'art. 30 co 1 l. b) della l. 479/1999 attraverso la complessa fattispecie della prima udienza utile in giudizio di secondo grado o di rinvio secondo il disposto dell'art. 4-ter del d.l. 82/2000 piu' volte citato. Diversamente si sottrae ad una categoria di imputati nella stessa condizione (pendenza del processo d'appello) un trattamento di favore e lo si riconosce ad altri, senza alcuna razionale differenziazione o fondamento che possa giustificare la scelta. La discrezionalita' del legislatore rischia di trasformarsi in arbitrio. Nel caso di specie ed allo stato, si e' detto, non e' possibile accogliere la domanda del M. ostandovi: - l'art. 4-ter d.l. 82/2000 e art. 7 co. 1 d.l. 341/2000 (pur all'esito della dichiarazione di incostituzionalita' di cui alla sentenza del 3 luglio 2013 della Corte costituzionale) - l'art. 7 co. 2 d.l. 341/2000; - l'interpretazione giurisprudenziale che integra diritto vivente sul punto. Cio' perche' il quadro normativo indicato non prevede che il trattamento penale di cui all'art. 7 co. 2 d.l. 341/2000 non si applichi ai processi all'epoca della sua entrata in vigore gia' pendenti in appello (o in giudizio di rinvio) ed alle parti processuali - imputate dei delitti qualificati (puntiti con ergastolo e isolamento) - cui il sistema aveva gia' riconosciuto il diritto potestativo processuale al trattamento introdotto dall'art. 30 co. 1. b) della l. 479/1999 attraverso la complessa fattispecie della prima udienza utile in giudizio di secondo grado o di rinvio secondo il disposto dell'art. 4-ter del d.l. 82/2000 piu' volte citato. In particolare le norme sono in contrasto con l'art. 3 Cost., con l'art. 7-1 Convenzione EDU norma che integra, quale disposizione interposta, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e, dunque, entra in contrasto diretto con lo stesso art. 117 co. 1 Cost. Conclusioni su rilevanza e non manifesta infondatezza. Ebbene la questione e' rilevante ai fini del decidere odierno. Ostano, infatti, all'accoglimento della domanda proposta le norme indicate nella parte in cui non prevedono che il trattamento di maggiore favore introdotto dall'art. 30 co. 1 lett. b) l. 479/1999 possa trovare applicazione nei confronti degli imputati a carico dei quali alla data di entrata in vigore del d.l. 82/2000 (art. 4-ter) era gia' pendente il giudizio d'appello, e la norma citata aveva riconosciuto loro il diritto, relativo. Costoro, infatti, non hanno potuto avanzare, pur avendone inizialmente diritto, istanza di accesso al rito, perche' la prima udienza utile era intervenuta in epoca successiva alla data di entrata in. vigore del d.l. 341/2000 (24-11-2000), che ha modificato il trattamento sanzionatorio e, dunque, ha precluso, in fatto, senza una spiegazione razionale, ad una parte della categoria di imputati, di accedere al rito alle condizioni piu' favorevoli. Si e' cosi' riservato loro un trattamento deteriore sulla pena. La diversificazione non e' imputabile ad inerzia o a volonta' delle parti processuali stesse e risulta, piuttosto, frutto di una scelta non razionale del legislatore che, al contrario, oggi finisce per ammettere a beneficiare del trattamento di favore (attraverso la postuma declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 7 co 1 del d.l. 341/2000) solo coloro che, per una pura congiuntura casuale, sono stati nella condizione di poter avanzare l'istanza di abbreviato, prima del 24 novembre 2000, essendo stata gia' fissata la prima udienza del giudizio d'appello, in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.l. 341/2000. Indubbiamente il legislatore puo', in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, o per altre ragioni mutare approccio nella. disciplina di un fenomeno processuale e sostanziale. La regola di ragionevolezza costituzionale impone, tuttavia, che situazioni identiche siano trattate in termini omogenei e che in caso di differenziazione ricorra una sufficiente ragione giustificativa (sentenza n. 236 del 2011). Ritenuta alla luce di quanto premesso rilevante la questione ai fini del decidere odierno e considerato che la questione presenta profili di non manifesta infondatezza tali da sottoporre alla ecc.ma Corte costituzionale lo scrutinio della questione stessa, anche alla luce dell'orientamento giurisprudenziale indicato (in ultimo espresso da Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23931 del 17/05/2013. Cc. (dep. 03/06/2013) Rv. 256257.